Con la ricerca che avanza, sempre più di frequente si riescono a individuare nel sangue «orme», i biomarcatori, lasciate dalle malattie finora «imprendibili»: come, per esempio, il Parkinson e l’Alzheimer. Seguendo queste tracce, è possibile arrivare il prima possibile a una loro individuazione precoce.
Quando, probabilmente, gli interventi terapeutici risulterebbero più efficaci. Va in questa direzione la scoperta effettuata da un gruppo di scienziati dell’Edith Cowan University di Perth (Australia), mirata alla formulazione della diagnosi di malattia di Alzheimer attraverso un esame del sangue. Gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Translational Psychiatry, hanno trovato infatti che a un elevato livello della proteina fibrillare acida della glia (Gfap) nel sangue corrisponde un aumento della beta amiloide nel cervello (già visibile nel cervello dei malati anche 20-30 anni prima della manifestazione della malattia).
Gli scienziati ricordano che la proteina Gfap si trova normalmente nel cervello, ma viene rilasciata nel sangue quando quest’ultimo viene danneggiato dai primi segni dell’Alzheimer. Malattia che colpisce 35 milioni di persone nel mondo e che oggi viene identificata con esami del fluido spinale o con la scansione cerebrale. Il responsabile del gruppo di ricercatori, Ralph Martins (direttore del Centro di eccellenza per la ricerca e la cura della malattia di Alzheimer della Perth University), commenta: «I biomarcatori nel sangue potrebbero diventare delle alternative concrete ai più costosi e invasivi metodi oggi in uso per fare una diagnosi precoce della malattia. Scoprire l’Alzheimer per tempo potrebbe permettere interventi medici più efficaci e indicazioni di stili di vita che possano allontanare lo sviluppo dell’Alzheimer». Quanto hanno scoperto a Perth potrebbe essere «rivoluzionario», afferma Martins, perché «l’esame del sangue di cui parliamo potrebbe essere definito e valido in pochi anni. E soppiantare i costosi brain imaging e la puntura lombare, dolorosa e invasiva».